domenica 25 settembre 2011

Peacock - Recensione

Peacock
USA, 2009, colore, 90 min

Regia: Michael Lander

Sceneggiatura: Michael Lander, Ryan O Roy

Cast: Cillian Murphy, Ellen Page, Susan Sarandon, Josh Lucas, Bill Pullman, Graham Beckel, Keith Carradine


John Skillpa (Cillian Murphy) è un giovane uomo molto riservato. Dotato di calma apparente e controllo cerebrale, lavora diligentemente e silenziosamente nello scantinato della banca di Peacock, piccolo centro del Nebraska. Della sua vita da adulto, segnata dalla solitudine, con ipervigilanza ed evitamento fobico del contatto sociale, i concittadini sanno ben poco. Già dalle battute fuori campo della madre che aprono il film viene perfettamente delineata la tragica, devastante infanzia di bambino-oggetto alla mercé di una madre che lo alleva sul modello delle proprie fantasie malate, creando una piccola comunità duale da proteggere con il silenzio assoluto. John porta sulla pelle le conseguenze, per dirla con le parole di Alice Miller, di questa “pedagogia nera”. L’incapacità di affrontare autonomamente delle scelte pratiche è solo uno degli aspetti legati al trauma della sua infanzia. Ma soprattutto John presenta un disturbo di personalità multipla, una forma grave di scissione, conseguenza delle gravi violenze psicologiche e sessuali subite da una madre possessiva e autoritaria che le falsificava come atto d’amore. L’altra sua personalità è rappresentata da Emma, figura femminile “incontrata” esattamente lo stesso giorno della morte della madre come tentativo di costruire un modello suppletivo di sostegno e accudimento. Emma è la classica mogliettina anni 50 che provvede alle faccende domestiche rendendosi il più possibile invisibile all’esterno, con regole precise nella gestione della casa ma anche desiderosa di un figlio. Tutto procede indisturbato nella vita di John/Emma, finche fanno irruzione due elementi imprevisti: il deragliamento di un treno nel giardino di casa, che renderà visibile un’Emma fino ad allora sconosciuta al circondario, e la comparsa di Maggie, giovane madre single. Maggie (una non eccessivamente credibile Ellen Page) è una vecchia conoscenza della vita di John e, disperata, vi riappare per chiedere la continuazione dell’aiuto economico per il proprio bambino, del quale John è il padre pur avendone da sempre ignorato l’esistenza, che, legalmente riconosciuto, veniva sostenuto fino ad un anno prima dalla madre aguzzina. Tra Emma e Maggie si creerà un rapporto doloroso e sincero. La ragazza rivelerà di essere rimasta incinta dopo essere stata adescata in un bar dalla madre di John e assoldata per prestazione sessuali con partecipazione attiva e supervisione della stessa. Questi eventi determineranno un aggravamento dello squilibrio psichico, con le due personalità che agiranno in autonomia e spesso in contrapposizione. Da una lato troviamo Emma che intravede la possibilità di poter adottare il bambino per concretizzare il suo bisogno di maternità, dall’altro un John sconvolto per il riaffiorare dei terribili momenti della sua infanzia che tenterà di allontanare Maggie offrendole tutti i suoi risparmi. Sarà Emma a spuntarla, mettendo in pratica un piano articolato per l’eliminazione della parte maschile di sé. Ma proprio il ritrovarsi “madre” farà scattare la paura della possibile coazione a ripetere e, lasciando andare Maggie e il bambino, ripiomberà nella più totale solitudine.
Visione interessante e particolare questo Peacock, soprattutto per chi pretende un’attenzione psicologica minuziosa e corretta in ogni suo aspetto e non storce il naso di fronte ad un tono esageratamente melodrammatico. Grande prova di Cillian Murphy sia per quanto concerne Emma che soprattutto per un John tutto sorrisi di sottomissione appena accennati che cerca di accentuare il più possibile la mascolinità della sua voce. Si potrebbe obbiettare, nonostante un doveroso plauso all’ottimo lavoro svolto in fase di make-up, che la mancata individuazione di John in Emma da parte dei cittadini di Peacock non sia esattamente il massimo della credibilità ma, data la natura tendente all’invisibilità del personaggio, con qualche sforzo si può anche chiudere un occhio.

domenica 4 settembre 2011

Dopo il matrimonio - Recensione

Efter brylluppet
Danimarca/Svezia/Uk, 2006, colore, 120 min

Regia: Susanne Bier

Sceneggiatura: Anders Thomas Jensen

Cast: Mads Mikkelsen, Rolf Lassgård, Stine Fischer Christensen, Sidse Babett Knudsen, Mona Malm, Neel Rønholt


Jacob (Mads Mikkelsen) lavora in un orfanotrofio in India, quando giunge la notizia che un miliardario danese vuole “incontrarlo per stringergli la mano” prima di concedere il finanziamento necessario alla sopravvivenza della struttura. Jacob è fuggito dal suo passato ed ora è proprio il passato a ritornare casualmente. Ma sarà proprio vero? Pur contrariato dal dover affrontare, anche se per breve tempo, il suo vecchio mondo fatto di “ricchi e idioti”, in realtà reso ansioso dal riemergere di aspetti della sua vita che tornano prepotentemente a galla e dal lasciare un luogo in cui ha realizzato i suoi ideali e in cui si sente sicuro e appagato, decide di partire. Incontrerà Jørgen (Rolf Lassgård), ricco uomo d’affari, che si dimostrerà interessato al suo progetto ma che rimanderà un ulteriore approfondimento a dopo il matrimonio della figlia, al quale Jacob viene stranamente invitato. I due uomini sono estremamente diversi, sia caratterialmente che per scelte di vita. Jacob è idealista e sognatore, poco pratico, con un passato da spiantato, mentre Jørgen è un uomo di successo, concreto, che, tuttavia, dietro un’apparente serenità nasconde una profonda angoscia della morte (si scoprirà essere un malato terminale). I loro destini si sono incrociati non proprio casualmente. Jacob scoprirà che la neosposa è la propria figlia della quale non conosceva l’esistenza e la madre, nonché moglie di Jørgen, è la donna con la quale vent’anni prima aveva vissuto una relazione profonda ma distruttiva per entrambi, troppo diversi nell’affrontare la vita reale. Le intenzioni di Jørgen, conscio del poco tempo che gli resta, divengono presto chiare: concederà un finanziamento astronomico al progetto a patto che Jacob resti in Danimarca e si prenda cura della famiglia. Si è proiettati in un mondo di sentimenti che consente un approccio a varie tematiche sviscerate con la consueta perizia a cui ci ha abituato la scrittura di Anders Thomas Jensen: la fuga dal passato, l’importanza dell’affettività come motore della vita, l’idealismo come disperata ricerca di colmare un vuoto interiore, il desiderio di paternità e l’importanza di una paternità adottiva in grado di fornire sostegno affettivo e stabilità. La disamina dei sentimenti che animano la storia viene effettuata principalmente tramite i due protagonisti maschili, combattuti tra un passato che si è cercato di dimenticare (Jacob) e un presente che, ironia della sorte, appare tragico (Jørgen). Tutto ciò che era rimasto in sospeso, nascosto, ritorna; si riallacciano i fili delle esistenze e si completa l’incompiuto attraverso una reazione circolare che fa sì che ad una fine corrisponda un nuovo inizio, forse come atto di generosità, forse come desiderio ultimo di continuare in qualche modo ad esistere. Più marginali le figure femminili con un impatto sulla vicenda egualmente marginale. La sofferenza della candida figlia Anna (Stine Fischer Christensen) dopo essere stata cornificata a tempo di record influirà ma non sarà certo determinante nella scelta di Jacob. La rigida moglie Helene (Sidse Babett Knudsen), invece, vince la palma di personaggio più opportunista del film. Pur di continuare a sentirsi protetta dalla stabilità economica, mostra nei confronti della dipendenza alcolica del marito un’accondiscendenza benevola che non aveva attuato nella sua vita passata e che aveva posto fine, anche per la mancanza di sicurezza e di prospettive stabili, al suo rapporto con Jacob. Incarna, insomma, una scelta non proprio travagliata tra ideali e denaro.
Alla fine una domanda sorge spontanea e invita alla riflessione: è proprio vero che diventare adulti significa adeguarsi alla concretezza della realtà anche a spese di qualcosa a cui si tiene? La scelta di Jacob, seppur sofferta, è facilitata dalle circostanze. Può continuare a mantenere gli ideali “da lontano” e reinserirsi in un progetto di vita che presenta già tutte le caratteristiche di appagamento, come il ritrovare una figlia reale con la quale potrà compensare l’abbandono dei “figli adottivi”, e concedersi un più che probabile inizio, o continuazione, di una storia d’amore su basi più mature.

Sono il numero quattro

I Am Number Four
USA, 2011, colore, 109 min

Regia: D.J. Caruso

Sceneggiatura: Alfred Gough, Miles Millar, Marti Noxon

Cast: Alex Pettyfer, Dianna Agron, Timothy Olyphant, Teresa Palmer, Callan McAuliffe, Kevin Durand, Jake Abel


Avevo già citato senza troppa convinzione questo esemplare di fantascienza per teenager mesi fa, un tentativo, rivelatosi fallimentare, di donare alla fantascienza il suo Twilight. Il pubblico, nonostante la presenza del belloccio emergente Alex Pettyfer e della gnocca Dianna Agron, non sembra essersi particolarmente affezionato alle gesta del numero quattro e con molta probabilità i restanti numeri resteranno sulla carta dei romanzi della saga. Numero 4 è uno dei nove alieni che vengono fatti scappare dal pianeta natale Lorien prima che i perfidi Mogadorian, dei tamarri con le branchie, facciano secca l’intera popolazione. Non contenti di ciò, inseguono i fuggitivi pure sulla Terra per terminare il lavoro. Per un motivo non meglio precisato i 9 possono essere uccisi seguendo l’ordine numerico e 1,2 e 3 ci hanno già lasciato le penne, quindi se la matematica non è un’opinione… Ma come vedremo, per gli sceneggiatori e forse per chi ha scritto il libro la matematica è un’opinione. Numero 4, alias John Smith, è perennemente in fuga, accompagnato da un protettore pressoché inutile (Timothy Olyphant) e da una bestiaccia aliena sotto mentite spoglie. Dovrebbe mantenere un basso profilo ma proprio non ce la fa ad evitare di farsi immortalare mentre fa il figo sull’acquascooter o ad assecondare la mania fotografica di Dianna Agron (e mica scemo), una di quelle persone fastidiose che hanno trovato nell’obbiettivo un prolungamento del proprio essere e infischiandosene bellamente delle leggi sulla tutela della privacy fanno foto a tutto e tutti per poi pubblicarle su internet. Roba da ficcarle la macchina fotografica in gola. Nel frattempo 4 scopre che la Forza scorre potente in lui e può anche emettere fasci di luce dalle mani mentre fa salti di dieci metri. Giusto per non scontentare nessuno. Alla festicciola si aggiunge anche numero 6 (Teresa Palmer), la tipa cazzuta che i Mogadorian hanno già tentato di uccidere in barba all’ordine numerico. Sono il numero 4 stupisce fin dalla sequenza d’apertura (l’uccisione di numero 3) per la bruttezza degli effetti speciali, fatto decisamente insolito per una produzione targata Michael Bay, integrati talmente male da conferire un effetto comico. Poi le cose migliorano un po’ e si assestano su livelli che vanno dal sufficiente al mediocre. Stupisce anche come non si tenti nemmeno di abbozzare uno dei tradizionali cavalli di battaglia di queste produzioni vietate ai maggiori di sedici anni, il rapporto padre-figlio. Non che se ne senta la mancanza, comunque. In compenso i personaggi cambiano soventemente e inspiegabilmente atteggiamento a seconda di come girava agli sceneggiatori. Vogliamo parlare del capo della squadra di football nonché bulletto patentato? Prima mostra un’ossessione patologica alla stregua di uno stalker nei confronti della sua ex Dianna Agron, tormenta 4 e non contento cerca di farlo pestare dall’intera squadra di football; e nel finale cosa fa? Si trasforma in un agnellino e tutto tranquillo osserva i due piccioncini che gli si slinguazzano davanti. Mah…
Mi fermo qui, tanto la saga dovrebbe essere stata stroncata sul nascere.

giovedì 1 settembre 2011

The Green Butchers - Recensione

De grønne slagtere
Danimarca, 2003, colore, 95 min

Regia: Anders Thomas Jensen

Sceneggiatura: Anders Thomas Jensen

Cast: Mads Mikkelsen, Nikolaj Lie Kaas, Line Kruse, Ole Thestrup, Aksel Erhardtsen, Nicolas Bro


Affermare che Anders Thomas Jensen sia uno sceneggiatore prolifico sarebbe usare un eufemismo. Il suo zampino è presente in quanto di meglio abbia prodotto il cinema danese negli ultimi dieci anni, successi internazionali compresi. Rarefatta è invece l’attività registica che comprende solo tre lungometraggi accomunati da una vena grottesca velata di malinconia e dal cast ricorrente e sempre impeccabile.

Svend (Mads Mikkelsen) e Bjarne (Nikolaj Lie Kaas) sono colleghi e amici che lavorano nella macelleria del tirannico “Salsiccia“ Holger. Il loro è un bel rapporto d’amicizia che nasce dall’incontro di due solitudini. Svend, continuamente deriso e umiliato dal boss, decide finalmente di mettersi in proprio insieme all’amico affrontando un investimento economico che permette di far luce su alcuni aspetti della loro vita passata. Bjarne si reca infatti alla clinica in cui è ricoverato il fratello gemello ritardato, Eigil, da anni in coma irreversibile dopo un pauroso incidente da lui stesso provocato, in cui hanno perso la vita i genitori e la giovane moglie di Bjarne. Senza starci a pensare troppo, autorizza i medici a staccare la spina per entrare in possesso della parte di eredità del fratello e fornire il suo contributo economico a Svend. L’inizio dell’attività lavorativa è disastroso, finché un evento fortuito, l’accidentale chiusura da parte di Svend dell’elettricista nella cella frigorifera, determina un capovolgimento della situazione. Per liberarsi dello scomodo inquilino surgelato, Svend ha la malsana idea di farlo a fettine e spacciarlo per carne di pollo accompagnata da una marinata di sua invenzione. La pietanza riscuote inaspettatamente l’approvazione degli ignari avventori e ben presto la macelleria diviene un posto di successo con tanto di servizi al telegiornale. Da qui in poi la situazione precipita e, grazie all’abilità di scrittura di Anders Thomas Jensen, non potrebbe andare meglio di così. In un crescendo surreale avverrà l’eliminazione sistematica di tutti i personaggi che possano interferire con la realizzazione del sogno di Svend e come se non bastasse, Eigil, una volta staccato dal respiratore, ritorna inaspettatamente in vita e nella vita di Bjarne.
Jensen è abilissimo nel tratteggiare due personaggi stanchi e disillusi, profondamente feriti e nel contempo totalmente fuori di testa. Bjarne è sempre stato posto in secondo piano dalla famiglia rispetto al fratello handicappato, verso il quale veniva indirizzata tutta l’attenzione con l’attuazione di un processo di negazione della disabilità che faceva sì che venisse assecondato in qualsiasi richiesta, compresa la guida di un’auto che porterà, con la complicità di un’animale, alla strage familiare. Non sorprende quindi che ami circondarsi di animali morti non solo sul posto di lavoro ma anche a casa attraverso un macabro hobby. Per il perfezionista ossessivo Svend, che in condizioni di stress è vittima di un’eccessiva sudorazione, l’infanzia è stata a dir poco problematica, segnata dalla perdita dei genitori e da atti di bullismo. In questo substrato psicologico si innesta la ricerca della fama a tutti i costi come unico elemento capace di supplire alla profonda solitudine e alla scarsa autostima. Talmente bassa che Svend non pensa neppure per un attimo che il successo della pietanza sia dovuto ad una sua creazione invece che ad un fatto a lui estraneo. E poco importa che la tiepida presa di coscienza delle proprie possibilità avvenga dopo che faccia fuori mezzo paesino assecondato dal quasi totale menefreghismo del suo compare. Anzi fa tenerezza quando come un bambino colto con le mani nel sacco si inventa le scuse più assurde per giustificare la presenza di un nuovo cadavere nella cella frigorifera. Se non si fosse capito, la verosimiglianza non abita da queste parti e l’improbabile happy ending non stona affatto in questo contesto di simpatici folli.



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