sabato 14 maggio 2011

Jodorowsky’s Dune, il documentario













Dal Festival di Cannes arriva la notizia che il regista Frank Pavich è al lavoro sul documentario Jodorowsky’s Dune, incentrato sul naufragato tentativo del regista cileno di adattare nel 1976 il pluripremiato romanzo di Frank Herbert. Dune avrà comunque la sua travagliata incarnazione cinematografica nel 1984 ad opera di David Lynch nel suo lavoro meno personale. Il documentario, prodotto da Snowfort Pictures, Camera One e Koch Media, offre la possibilità di addentrarsi nella visione di Jodorowsky, che avrebbe giovato della collaborazione di artisti quali Moebius e Giger.

Lo stesso Jodorowsky riporta alcuni dettagli del delirio a cui saremmo andati incontro:
“Non volevo rispettare il romanzo. Volevo ricrearlo. Per me Dune non appartiene ad Herbert così come Don Chisciotte non appartiene a Cervantes. Nella mia versione di Dune, l’imperatore della galassia è pazzo. Vive su pianeta artificiale fatto d’oro, in un palazzo d’oro costruito secondo le non-leggi dell’antilogica. Vive in simbiosi con un robot identico a lui. La somiglianza è così perfetta che i sudditi non sanno mai se si trovano di fronte l’uomo o la macchina. Nella mia versione, la spezia è una droga blu dalla consistenza spugnosa con al suo interno una forma di vita vegetale-animale dotata di conoscenza, il livello più alto di conoscenza. Non smette mai di cambiare forma, mentre si agita incessantemente. La spezia provoca continuamente la creazione di innumerevoli universi.”

I fan più intransigenti del libro avranno probabilmente tirato un sospiro di sollievo leggendo queste parole nonostante i nomi coinvolti in questo ambizioso progetto. Ricordo infatti che Moebius si sarebbe occupato del design dei costumi e dello storyboard, Chris Foss di quello delle navi spaziali e dei veicoli, H.R. Giger avrebbe dato vita al pianeta natale degli Harkonnen mentre la sceneggiatura di Dan O’Bannon avrebbe supportato il tutto.






Fonte: Twitchfilm

venerdì 13 maggio 2011

Iron Sky ha una data d’uscita!

Iron Sky, la commedia fantascientifica frutto di una coproduzione australofinnicotedesca, si ripresenta con un nuovo teaser dal titolo “We come in peace” che rivela inoltre la tanto agognata data d’uscita: 4 aprile 2012.
Iron Sky è rimasto in produzione per cinque anni, durante i quali la collaborazione con il pubblico per la creazione di contenuti, pubblicità e ovviamente per la ricerca di fondi, non è mai venuta meno. Le riprese principali in Australia e Germania sono terminate quest’inverno ed il film è attualmente in fase di post-produzione con la prima fase di montaggio ultimata. Adesso la palla passa alla Energia Production, la compagnia con sede in Finlandia responsabile degli effetti speciali.
Se Iron Sky raggiungerà quantomeno il livello d’intrattenimento di Cargo potrò ritenermi soddisfatto.



giovedì 5 maggio 2011

World Invasion: Battle Los Angeles - Recensione

Battle: Los Angeles
USA, 2011, colore, 116 min
Regia: Jonathan Liebesman
Sceneggiatura: Christopher Bertolini
Cast: Aaron Eckhart, Ramon Rodriguez, Cory Hardrict, Jim Parrack, Ne-Yo, Bridget Moynahan, Michael Peña,
Michelle Rodriguez

Quando parliamo di retorica vuota e patriottismo spicciolo gli americani non hanno praticamente concorrenza. Basterebbe questa frase per liquidare World Invasion: Battle L.A. per quello che è: uno spot per l’arruolamento nel corpo dei Marines degli Stati Uniti lungo quasi due ore. Non a caso il genere dell’invasione aliena ben si presta a simili operazioni di propaganda in quanto è estremamente semplice tenere distinti i buoni dai cattivi. Nessuna macchia può adombrare la figura degli eroici Marine quando si trovano di fronte ad una violenza così cieca, feroce, che non ammette mediazioni e può solo essere combattuta con altra violenza. Così è tutto più facile, no?
Battle L.A. è stato descritto, da una dei quelle frasi ad effetto che precedono il lancio di un film, come un Black Hawk Down con gli alieni. E fin da subito il film del 2001 viene “omaggiato” con l’approssimarsi in elicottero del plotone di soldati capitanato dal sergente Michael Nantz (Aaron Eckhart) alla zona di guerra che un tempo era la città di Los Angeles, ora pullulante di alieni. Peccato che Jonathan Liebesman non sia Ridley Scott, capace con l’aiuto del montatore Pietro Scalia (giustamente premiato con l’Oscar per l’occasione) di trasformare l’incursione degli elicotteri a Mogadiscio nell’approdo in un territorio alieno, degno di un film di fantascienza. Qui ci dobbiamo accontentare del faccione di Eckhart, improbabile soldato. Il degno erede di Bill Pullman, con quella faccia da WASP, in tenuta mimetica è veramente poco credibile, però sei hai già salvato il mondo una volta (The Core) puoi tranquillamente ripeterti. Un flashback ci riporta indietro di 24 ore, prima che un’annunciata pioggia di meteore si trasformi in contatto alieno, giusto in tempo per fare la conoscenza dei baldi giovani soldati, i soliti insopportabili esaltati. Sono minuti di infinita agonia, resi meno pesanti dalla speranza che presto creperanno tutti. Poi si passa all’azione, con le epiche battaglie su larga scala alla Independence Day sostituite da una feroce guerriglia tra gli edifici diroccati della città (un doveroso plauso alle scenografie di Peter Wenham), la camera a mano a seguire da vicino i personaggi ed un confusionario montaggio ad unire il tutto. Nel caso i retorici dialoghi e le battute su John Wayne (e ho detto tutto) non abbiano già nauseato abbastanza, ci pensa l’insistito ricorso alla shaky camera a far venire il mal di mare. Ma è quando Eckhart diviene protagonista indiscusso della scena che bisogna incominciare a tremare. Sulla demenziale autopsia aliena effettuata direttamente sul campo per scoprire punti deboli si può sorvolare ma quando il prode sergente comincia ad elencare i soldati caduti per nome, grado e numero di matricola, il livello glicemico arriva ben oltre i livelli di guardia, tanto da sforare il limite tra cattivo gusto e demenzialità involontaria. Gli effetti speciali sono in linea con altre produzioni ad alto budget sebbene sappiano di già visto: le solite forme di vita biomeccaniche cha vanno di moda negli ultimi tempi condite con droni vari. Questi alieni poi, saranno pure tecnologicamente progrediti ma non brillano certo per scaltrezza dato che lasciano il centro di comando così sguarnito. Tirando le somme, se dovessimo confrontare Battle L.A. con l’analogo Skyline ci sarebbe l’imbarazzo della scelta. Il film dei fratelli Strause è scadente, dal budget limitato ma in fin dei conti innocuo. Qualcuno potrebbe obiettare che la presunzione che gli effetti speciali possano sopperire al nulla più totale tanto innocua non è, ma questo è un altro discorso. In Battle L.A. è invece meglio concentrarsi unicamente su questi. Per chi ce la fa.
Irritante, tremendamente irritante.

martedì 3 maggio 2011

Creatura degli abissi - Recensione

DeepStar Six
USA, 1989, colore, 105 min

Regia: Sean S. Cunningham

Sceneggiatura: Lewis Abernathy, Geof Miller

Cast: Nancy Everhard, Greg Evigan, Miguel Ferrer, Nia Peeples, Matt McCoy, Cindy Pickett, Marius Weyers
,

Sul finire degli anni 80 la meta del cinema di fantascienza si sposta dal cosmo alle profondità marine, simili ad una galassia nella loro fluidità sconfinata. Nel 1989 escono infatti ben tre film con la medesima ambientazione: l’ottimo The Abyss di James Cameron, Leviathan di George P. Cosmatos e Deepstar Six, il fratellino povero ma precedente agli altri due. In cabina di regia, Sean S. Cunningham, più attivo in veste di produttore che come regista e famoso soprattutto per aver diretto il primo capitolo della saga di Venerdì 13. Ben conscio che certi film, proprio come una puntata di MacGyver, dovrebbero rimanere confinati in un angolo della memoria, e ricordati attraverso il filtro dello sguardo di un decenne decido comunque di rispolverare la mia vecchia VHS registrata dalla tv e immergermi insieme agli undici membri dell’equipaggio della base di ricerca sottomarina Deepstar Six e ai simpatici modellini che la compongono. In realtà la base, costruita dal tronfio dottor Van Gelder su commissione della marina degli Stati Uniti, oltre alla funzione di ricerca si occupa anche della costruzione di una base missilistica che con questi cattivissimi e mefistofelici russi non si scherza. La missione è quasi al termine ma viene rivelata la presenza di una cavità sottomarina custodita da una parete di roccia e i nostri furbissimi scienziati colti da un raptus di frenesia e in barba alla norme di sicurezza decidono di farla esplodere, causando non solo danni strutturali alla stazione e la messa fuori uso della camera di decompressione ma anche il risveglio di una forma di vita sconosciuta che non ha mandato giù tutto il trambusto e considera l’equipaggio, obbligato a non poter utilizzare le capsule di salvataggio col pretesto della decompressione, particolarmente succulento.
Cunningham, ovviamente per motivi di budget, decide di puntare sulla tensione fallendo miseramente e fa palesare il mostro degli abissi soltanto dopo una buona ora di film, lasciandosi finalmente andare ad un po’ di splatter. Fino ad allora al massimo si può assistere ai tentativi di mettere una pezza alle infiltrazioni d’acqua e al crescente stato di isteria di cui si fanno protagonisti un Van Gelder che vede russi da tutte le parti facendo avvampare paranoie da Guerra Fredda e soprattutto un esagitato Snyder/Miguel Ferrer che riesce a farsi menare da tutti. La prima apparizione della creatura è di quelle che si ricordano, non tanto per l’animatronic in sé che ricorda il vermone di Tremors con qualche occhio in più, quanto per il ridicolo pupazzo da quattro soldi usato per simulare il palombaro tranciato in due. Da questo punto in poi, Deepstar Six diventa tutto sommato guardabile, se non altro per la curiosità di vedere fino a che punto si può spingere l’idiozia di certi personaggi che per l’occasione si armano di shark dart (una specie di fiocina caricata con cartucce di CO2, infilzi e boom) e fucili a pompa (che come è noto sono le armi standard che uno si porta nelle missioni sottomarine). In verità più che la creatura degli abissi stessa ci pensano gli stessi membri dell’equipaggio a farsi secchi tra loro. La parte del leone è affidata a Miguel Ferrer, vera e propria scheggia impazzita, che pungola qualsiasi cosa tranne che il mostro prima di ritinteggiare le pareti di una capsula di salvataggio con i suoi fluidi corporei. Il resto dell’anonimo cast risulta non pervenuto se si esclude Nia Peeples in funzione di miss canottiera bagnata.
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